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[Dyane A.] Sinfonie mutevoli
#13
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~ Calimport, anni prima ~

C'è un tramonto insanguinato che allunga il suo abbraccio vermiglio verso le guglie più alte dei palazzi, intrufolandosi in riflessi cremisi tra le spesse mura di pietra porosa, logorata dalle tempeste di sabbia.
L'inusuale, l'esotico, il bizzarro, sono le carte scoperte con cui gioca da secoli l'antico Impero delle Sabbie.
Il quartiere del mercato è un posto trafficato, caotico. Negozi minuscoli e botteghe anguste si inseriscono in ogni vicolo nascosto, venditori ambulanti urlano dalle finestre e mercanti di ogni sorta si appostano con i loro carretti agli angoli delle strade. Ogni cosa, dai gioielli raffinati alla bigiotteria senza valore, dagli oggetti magici minori agli artefatti di alta qualità sono certamente reperibili a Calimport.

Ora che la sera si appresta a coprire il deserto con il suo soffio più mite e gradevole, la città inizia a rallentare convogliando i propri flussi verso luoghi più consoni agli affari della notte. Deboli lumi si accendono a centinaia nelle abitazioni addossate una all'altra in un immenso mosaico di vite intrecciate, dispiegate come una mappa consunta sotto un cielo affollato di stelle.

Mantengo il solito passo sostenuto ed evito di attirare l'attenzione più del dovuto. Tengo sottobraccio il fagotto con gli acquisti che mi sono stati commissionati e conto i passi nella mia mente, per stabilire quanti minuti di libertà ho ancora prima di rientrare senza destare sospetti.

Imbocco uno dei vicoli meno affollati e sbircio da sotto il cappuccio damascato verso le finestre di una locanda in cui brulicano figure annegate nel fumo denso delle pipe. C'è un musico fuori dalla porta, ha degli abiti sicuramente di seconda mano ed un liuto usurato, non se la deve passare benissimo. Gli passo a fianco per incrociare il suo sguardo e bere avidamente dalla disperazione che ne trapela.
Contro ogni mia aspettativa mi afferra il braccio costringendomi a trattenermi, e mentre mi parla sento il suo alito pesantemente odoroso di vino scadente.

"Alcuni dicono che senza speranza la vita è impossibile, altri dicono che con la speranza la vita è vuota."

Intona quei versi cadenzandoli con le note di un motivetto tipico, e mi fissa con una vacuità di sguardo che mi attrae pericolosamente. Quelle parole sono così appropriate, eppure vedo soltanto un ubriacone disilluso dalla vita che ha osato toccarmi con le sue lerce mani. Gli do un deciso strattone e mi allontano senza voltarmi.
Il motivetto continua a girarmi nella testa anche mentre scivolo lungo i vicoli più stretti, per accorciare il percorso verso casa ed evitare altri incontri spiacevoli.

La speranza che vedo nelle piccole vite che mi girano attorno non è altro che un quadro estraneo, che mi include ma al quale assisto come a uno spettacolo privo di intreccio, fatto solo per intrattenere gli occhi. Balletto senza nesso, un muoversi di foglie al vento, nuvole dove la luce del sole cambia colore, antiche aperture di vie, a casaccio, in opposti punti della città.
Una mappatura cifrata di punti pregni di significato sparsi alla rinfusa su una superficie caotica ed asfissiante.
Traccio le connessioni e poi mi perdo a osservarle, le guardo svanire e perdere senso. Con tutta me stessa desidero arrivare a vedere le cose come fa lei. E se invece fingesse soltanto?

Sono assorta in questi pensieri quando attraverso l'ultima piazzetta e una figura femminile incappucciata mi viene addosso urtandomi di proposito. Nello scorrere di un istante che si perde nel trambusto di quella piazza affollata accolgo il suo gesto che mi consegna un piccolo sacchetto di velluto nero.
Continuo a camminare senza voltarmi e infilo le mani sotto al mantello cercando di capire al tatto cosa contenga, inutilmente.

Solo una volta rientrata nelle mie stanze, nell'indifferenza generale delle altre jhasine indaffarate a ornarsi i capelli e mischiare oli profumati, apro quel sacchettino con estrema lentezza.
E' un ciondolo che riconosco bene, macchiato di sangue che adesso sporca anche le mie mani.

Qualcosa come la percezione di un tonfo sordo, da qualche parte dentro di me, ha la spietatezza di una consapevolezza raggiunta oltre le lacrime, oltre le emozioni, al di là di me stessa, del bene o del male.

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~ Mistledale, oggi ~

Il sole è sorto da poco all'orizzonte, eppure il mattino è già circonfuso di una luce abbagliante, tanto più intensa quanto più è stata profonda l'oscurità che l'ha preceduta. I sussurri della voce di lei ancora mi riecheggiano nella mente, e mi sento profondamente calma, svuotata d'ogni tensione.

Non ho voglia di salire su una carovana affollata di gente, così inizio semplicemente a camminare verso la città, nella vana illusione che ogni passo regolarmente messo dietro l'altro mi aiuti a riordinare parallelamente le idee.

Vedo chiaramente le strade che ho davanti a me, ma molto più nebbioso è il futuro che attende oltre quegli orizzonti. Scelte, conseguenze, e l'indistruttibile consapevolezza che in fin dei conti la via è una sola, sempre quella, in caduta libera.

"Tu hai scelto, pertanto sarà solo tua questa responsabilità. Sei consapevole di ciò?"

Soffia un vento eccessivo sul sentiero tra le fattorie della valle, e d'un tratto ho paura di pensare. Qualcosa mi urla nel cervello che non ho mai avuto scelta, ma si quieta lentamente, mentre il vento tutto in torno si alza più impetuoso.
Conosco un solo modo di placare la sete, tutto il resto è un corollario d'ombre che s'agitano sul palcoscenico dietro un sipario sempre più sottile.

Non si torna indietro: una volta accarezzato il buio delle profondità dell'oceano non c'è modo di risalire. In molti scelgono di essere ciechi, di riporre le proprie preghiere e speranze in vane illusioni colme di ipocrisia, perchè sanno che se si voltassero vedrebbero l'ombra proprio lì, al loro fianco, pronta ad inghiottirli. No, non potrebbero sopportarlo.

Molti anni fa io ho scelto di vedere, condannando me stessa. Ma non sono abituata a prendermi responsabilità che non riguardino soltanto me. Mi brucia, è una paura che non conosco e che devo imparare a gestire.

Rallento il passo e inizio a immaginare il suo sangue che scorre, e uno, due, decine di modi per toglierlo di mezzo se fosse necessario. Li analizzo con freddezza spietata, nei dettagli.
Poi mi fermo e fisso la strada, incrocio lo sguardo di un paio di viandanti, uno di loro si avvicina a chiedermi se va tutto bene. Devo essere impallidita? Scrollo il capo e proseguo.

Lo stomaco si stringe con una violenza inaudita, e non riesco a non pensare all'unica altra volta in cui quel senso di vuoto terrificante mi ha inchiodata all'ineluttabilità terribile del destino che ho scelto.
Quel ciondolo insanguinato a Calimport. Un dono macabro e infinitamente eloquente.

Non ho mai saputo chi fosse stato a decretare la sua morte, ma avevo deciso di imputare l'assassinio a Shayla. Sì, doveva averlo fatto per vendicarmi, per togliere da questo fetido deserto di menzogne ed illusioni l'unico uomo che avessi osato stupidamente amare.
Con quella convinzione nel cuore le avevo giurato eterna fedeltà.

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Dyane Alfarham
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