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21-08-2017, 22:35
(Questo messaggio è stato modificato l'ultima volta il: 21-08-2017, 22:39 da Nightmare.)
Il cielo era particolarmente limpido quella notte, lasciandosi illuminare da fin troppe stelle impossibili da contare.
L'elfa aveva sentito il bisogno di partire, allontanarsi per un po' dalla Città del Canto, come suo padre e sua nonna prima di lei, cercando briciole di una storia mai raccontata, quella di sua madre.
Non aveva idea di quanto tempo sarebbe servito per quella ricerca, guidata più dalla confusione e dai sensi di colpa, che da una logica speranza portante almeno una singola possibilità di riuscita, la giovane elfa in molte settimane di viaggio arrivò nell'ultimo luogo indicatole dalle divinazioni del padre, un punto con nulla in particolare della Grande Foresta e dopo ricerche e domande, senza esito positivo, finalmente si arrese all'idea di aver fallito.
Era amareggiata ma quel dolore in fondo era sempre stato come una sottile spina conficcata nel cuore, cresciuto con lei.
Cercò un luogo tranquillo e protetto dove accamparsi e, prima della reverie le cadde lo sguardo su di una piccola tana di volpi, dalla quale due cuccioli erano scappati per giocare e curiosare in giro e in quell'istante le tornò alla mente la propria infanzia, cercando tra le proprie memorie l'ultima volta che si era sentita serena, per scoprire che erano passate troppe decadi da quella sensazione e non sapendosi dar risposta abbandonò la domanda concentrandosi sul proprio riposo.
Passarono quasi le quattro ore necessarie quando qualcosa si insinuò nel suo flusso di coscienza quasi come una malattia, un'ossessione.
I suoi stessi occhi, la stavano fissando nel buio ma non era un ricordo, era qualcos'altro e quegli occhi avevano qualcosa di diverso, sembravano carichi del peso di un'età che lei di certo non aveva e pieni di fredda crudeltà... ma ciò per quanto la rese inquieta non la spaventò, a farlo fu l'eco di una voce distorta che sussurrava.
"Dì il mio nome."
La giovane non seppe dire neanche se si trattava di una voce maschile o femminile ma riaprì gli occhi allarmata. Non c'era un vero motivo che poteva riconoscere come reale ad agitarla in quel modo, almeno non in quel momento, tuttavia si sentì confusa, gli umani avrebbero potuto definirlo come un incubo ma lei non era umana.
La sua mente le stava giocando qualche brutto scherzo? Forse era semplicemente quel luogo antico o forse, lo scherzo di qualcun altro? Non lo sapeva ma decise di rimettersi in viaggio per cercare il conforto di suo padre, a cui avrebbe potuto raccontarlo.
Nelle settimane a venire l'agitazione non passò, rivisse più e più volte quello che ora era anche un ricordo, così divenne incapace di distinguerlo da una visione e anche una volta tornata alla Città del Canto, tutto ciò che riuscì a fare fu chiedere consiglio ad un erborista per alleviare il suo stato ansioso ma senza riferirgli di ciò che lo provocava, così come alla fine, non riuscì a parlarne neanche al proprio padre sebbene fosse tornata con quell'intenzione.
[...]
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Vanyrianthalasa Guenhyvar
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22-09-2017, 13:28
(Questo messaggio è stato modificato l'ultima volta il: 22-09-2017, 13:29 da Nightmare.)
Cosa le stava succedendo?Quasi stentava nel riconoscersi a volte ed era iniziato tutto dal fallimento della sua ricerca. Seguendo quegli indizi non aveva scoperto la storia di sua madre ma aveva riportato qualcosa di oscuro con se, qualcosa che le teneva la mano conducendola verso un sentiero di pazzia.
Perchè non aveva fermato la sua freccia?Ne era perfettamente in grado, aveva la prontezza e i riflessi per fermarsi ma non lo aveva fatto e non poteva perdonarselo.
Aveva rischiato di ucciderlo.
Iniziava a chiedersi nel segreto dei meandri del proprio cuore, se realmente come suggeritole, era stato solo un gesto dettato dal rifiuto psicologico dell'azione che stava avvenendo avanti ai suoi occhi...oppure se era stato altro.
E se era stato altro, cosa significava?Qualche parte di lei si era sentita così insultata, scavalcata e irritata per aver visto un alleato porsi tra lei ed il suo bersaglio da aver istintivamente deciso di eliminarlo?
Non osava dirlo ad alta voce e neanche pensarlo troppo a lungo, raggelata, all'idea di convincersi che fosse quella la verità.
Pianse in silenzio, nel buio di una stanza di locanda nella Città del Canto, fiocamente illuminata da un cielo limpidamente stellato che le ricordò la notte in cui ascoltò per caso una frase che suo padre disse ad un suo vecchio amico.
"...se è bella come sua madre, non ha comunque i suoi occhi, sono occhi che non avevo mai visto e, ad esser sincero, non mi danno buone sensazioni, ho già perso..."
Non seppe cosa lui disse prima e neanche quali furono le parole successive, poichè non volendo rischiare di esserne ulteriormente ferita si allontanò senza farne parola.
Tornando con la memoria al presente, calmato il cuore e relegate le angosce in un angolo profondo dell'anima, sollevò lo sguardo e si avvicinò alla finestra per osservare il cielo.
Si ritrovò a riflettere sul fatto di non aver mai avuto alcuna difficoltà a vedere anche nell'oscurità più nera a differenza della sua gente e quello era solo un altro dei suoi segreti, taciuti nel timore di suscitare ulteriore preoccupazione in chi le era caro. Quanto altro?Per quanto ancora sarebbe stato possibile tacere?
In quel modo non riusciva a continuare la propria esistenza. Partita piena di speranza, aspettativa e desiderio di trovare la verità era tornata invece con una maledizione e non avendo il coraggio di parlarne a suo padre iniziò a cercare un'alternativa.
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Vanyrianthalasa Guenhyvar
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01-10-2017, 01:18
(Questo messaggio è stato modificato l'ultima volta il: 01-10-2017, 01:43 da Anima Errante.)
"Cosa hai pensato la prima volta che hai guardato i miei occhi?"
La rivide dopo molto tempo e qualcosa in lei sembrava cambiato e infranto. Nel suo sguardo leggeva la paura e l'incertezza, un terrore che proveniva dall'ignoto.
Le raccontò dei suoi sogni, se tali potevano definirsi, si limitò ad ascoltarla, non c'erano consigli per qualcosa che lui stesso non comprendeva. Ma conosceva il suo cuore, sapeva che era una creatura giusta, nonostante il bagliore sinistro che i suoi occhi emanavano, sapeva di potersi fidare di lei. La freccia che colpì Galduran quando il paladino decise di frapporsi tra lei e il Goblin, le spezzò il cuore. Non poteva capacitarsi di aver ferito un innocente, temeva nel suo profondo che qualcosa, forse l'inconscio o l'istinto non le aveva frenato la mano, Areskahan questo lo avevo compreso. Le promise che sarebbe rimasto al suo fianco e che l'avrebbe protetta dai suoi sogni, si sarebbe caricato il suo dolore sulle spalle e avrebbe cercato con lei e per lei, delle risposte.
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Sangue che chiama Sangue.
Doveva essere un momento di pace, di meditazione, di comunione con il mondo. Un momento in cui, come l'Arkerym Arandil Thanduil le aveva detto, capire il vero significato del definirsi tutti fratelli e sorelle.
Fu tutt'altro.
Il terreno umido, l'aria fresca, il silenzio tombale e la luce che a stento passava tra le fitte fronde degli alberi della Valle delle Voci Perdute sembravano creare il luogo ideale. L'elfa chiuse gli occhi, svuotò la mente, si lasciò andare e iniziò a provare quella sensazione di espansione, di completezza tale da ricevere una prima visione, tuttavia tutto capitolò in poco tempo quando di nuovo quella presenza opprimente e manipolatoria, che iniziò a pretendere in ogni modo la sua attenzione dal primo viaggio lontano nella Grande Foresta si fece sentire.
Non ci aveva pensato, lei, che diventare un tutt'uno con il mondo significava rischiare un collegamento tale anche con chi aveva occhi come i suoi ma mai si sarebbe aspettata anche quel volto, quelle parvenze così spaventosamente simili alle sue da far pensare per forza ad una parentela più che stretta.
Finalmente quegli occhi che in quel momento, con sinistra intensità, la scrutavano tra rabbia e tristezza, avevano un volto a cui abbinarli: un bellissimo volto elfico.
"Idiota!Che stai facendo?!"
Quella voce, anche quella voce suadente ed antica come la morte l'aveva già sentita anche se non così alterata.
Un'altra visione, terribile per lei, perchè ormai ne era certa. Chi Aveva tentato di distanziare così tanto non solo l'aveva trovata ma l'aveva raggiunta, fisicamente. Lui era li, nel Cormanthor e lei aveva visto bene dove ma non aveva il coraggio di andare a controllare. Non ancora.
La sua mente era sempre stata inattaccabile, fin dall'infanzia. Aveva imparato a costruire muri, a fortificare il suo cuore imponendogli di ignorare lo strazio di ciò che non le era mai stato rivelato, appoggiandosi del tutto, concentrandosi ed ergendosi solo su ciò che sapeva: figlia di Barahir Silae'Lannaern, un arcanista Tel'quessir e quindi Tel'quessir anche lei.
Era cresciuta usando la solitudine come uno scudo, la propria sofferenza come un'arma e stava riuscendo a costruirsi una vita, stabile, forte come la voleva, pregna degli ideali della nuovamente nata Città del Canto.
Tuttavia oscura, lei, lo era sempre stata.
Quante giustificazioni aveva dato a se stessa per la propria freddezza? Troppe. Il dovere, lo sporcarsi le mani, per evitare che degli innocenti potessero anche solo rischiare di pagare conseguenze per l'assenza di coraggio di chi doveva difenderli. Ci credeva si...ma in profondi meandri della sua anima gioiva ogni singola volta che si trovava a braccare i nemici di Myth Drannor.
Inferiori pelleverde e traditori drow sopra agli altri, non li considerava neanche popoli ma al pari di piaghe da estirpare e quel sollievo, quell'istintiva gioia ferale, ogni volta che uno di loro periva la preoccupavano da anni incalcolabili ed era qualcosa che mai ad anima viva, neanche a quella più vicina a lei, aveva confessato, perchè parlarne l'avrebbe reso solo più reale.
Pur tenendo a freno le proprie emozioni però, dolore o entusiasmo che fossero non riuscì a trattenere le lacrime quella notte, dopo giorni di silenzio capì che la sua non era paura di un nemico troppo potente da affrontare ma paura che tutto ciò su cui aveva costruito la propria esistenza venisse meno.
Paura di capire che lei stessa non fosse chi credeva.
Doveva trovare il modo di tenere quell'elfo, se di elfo si trattava, fuori dalla propria mente, lontano dalla propria vita perchè sentiva che altrimenti non sarebbe mai più stata Nityalar.
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Vanyrianthalasa Guenhyvar
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05-03-2018, 16:51
(Questo messaggio è stato modificato l'ultima volta il: 05-03-2018, 16:56 da Nightmare.)
La propria mutazione ormai stava divenendo chiara persino a lei che aveva imparato a rinchiudere nel profondo i propri timori in merito ma che stava anche imparando ad accettarla, ad accettarsi.
Era stanca di quelle invasioni mentali e così aveva deciso di cercarlo e quando lo trovò credeva che sarebbe finita con l'odiarlo profondamente. Era identica a Lui ma solo nell'aspetto, eppure il sangue non si può rinnegare e quanto più è difficile aver tali legami, tanto più sono preziosi.
Aveva conosciuto parte di quella storia sconosciuta che caratterizzava la propria esistenza ma non le bastava, voleva porre un punto su quel capitolo oscuro, riprendersi ciò che era suo di diritto ma ora non era più Lui ad averlo ma Lei, potente come una semidivinità e alla quale si sarebbe dovuta probabilmente inginocchiare e tutto dipendeva da un Suo si o da un Suo no.
La cosa peggiore era che quella creatura bellissima e terribilmente crudele, probabilmente l'attendeva a tal punto da presentarsi in prima persona nei suoi pensieri, come un destino ineluttabile da vincere prima di poter proseguire sul proprio cammino ...ma in fondo, doveva aspettarselo visto che se le cose fossero andate diversamente sarebbe appartenuta a Lei e non agli elfi.
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Vanyrianthalasa Guenhyvar
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Non in molti potevano vantare un viaggio riuscito in un altro piano, in buona parte affidato alla fortuna e al tatto con cui trattare una delle entità più volubili e perfide del creato.
Loro erano tra quei pochi e Lei in fine disse persino di si.
"Imparentata con cose carine"
Nella tranquillità di una giornata invernale a Myth Drannor si trovò a ripensare a quelle parole dette con leggerezza ma che in qualche modo al tempo in cui le udì la infastidirono oltre misura. Adesso erano un pensiero divertente sul quale ridere, ora, che i suoi parenti li aveva visti e conosciuti ed erano tutto meno che cose carine ma non li avrebbe rinnegati, non più.
Osservava sua madre, si era finalmente destata e dopo più di un secolo aveva fatto ritorno a casa. Si rese conto di quanto le somigliasse e non vedeva l'ora di conoscerla e di farsi conoscere, chissà cosa avrebbe pensato di lei e di tutta quella storia? E a cosa serviva quell'antico bracciale se poteva riaverla in carne ed ossa? A niente.
Era solo un cimelio simbolo di patti, sacrifici e tantissima sofferenza.
Osservava sua nonna e suo padre, che non vide mai in vita propria piangere così a lungo e soprattutto, farlo di gioia. Erano entrambi stati in grado adesso di darsi pace e di ritornare a vivere e a sorridere, pensando ad un'alba nuova. Stupiti, grati e orgogliosi come non erano mai stati.
Ripensò al suo compagno e all'amico, entrambi erano disposti a sacrificare più di quanto lei avrebbe loro permesso e si scoprì a sorridere di gratitudine, alla fortuna che glieli aveva posti lungo il cammino anche nei giorni più bui, quelli in cui non sapeva più chi era e chi sarebbe diventata.
Nityalar non era più la stessa Nityalar.
Quello però fu un bene perchè adesso elfa o fata, non aveva alcuna importanza e proprio come il Kerym le disse, era soltanto Nityalar e, a prescindere, Iolaa dell'Akh'Velhar.
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